Helda meaning.

Helda /ˈɦeld̪a/: antico nome germanico che significa "guerriera".

venerdì 30 gennaio 2015

22 (e tre giorni).

Pare che sia nata nel giorno più freddo del '93, io di certo non posso ricordarlo, ma tutte le persone che andarono in ospedale a trovare una piccola Helda ansiosa come al solito al punto da nascere con un mese di anticipo, me lo ricordano di continuo. D'altronde sono nata a ridosso dei Giorni della Merla, l'inverno ce l'ho dentro.
Il 27 gennaio è una data con un certo peso, è nato Mozart quel giorno, è morto Verdi ed è il Giorno della Memoria e probabilmente ci saranno stati altri innumerevoli eventi importanti che rendono ulteriormente più trascurabile il mio compleanno.
Il periodo che va dalla fine delle feste di Natale al 27 gennaio è ormai sempre più frequentemente caratterizzato da paranoie che mi fanno immaginare deteriorata e mostruosa come il ritratto di Dorian Gray e che mi fanno detestare il suono delle lancette degli orologi peggio di quanto le detesti Capitan Uncino, mentre nella mia mente c'è sempre un coniglio col panciotto che mi insegue ricordandomi che è tardi.
Ma in fondo io sono paranoica di natura, credo sia il mio peggior difetto.
Da tre giorni sono più vecchia di un altro anno e ora sono 22
È stato un compleanno di ritorni, di lontananze virtualmente abbreviate e di assenze
Ma, per quanto abbia cercato, non mi pare di aver trovato fili argentei tra i miei capelli color caffè. Non che mi aspettassi di invecchiare così velocemente da un giorno all'altro, né che ci fossero delle novità o che fossi maturata, anzi... Continuo a pensare di avere ancora sedici anni, sebbene abbia odiato avere sedici anni e credo che quello sia stato in assoluto l'anno più brutto della mia vita; continuo a preferire la Coca Cola al vino o alla birra, a fare gli stessi sbagli, a prendere ancora le decisioni in modo impulsivo e decisamente dannoso per me stessa, continuo a distrarmi dallo studio pensando alle più svariate ed improbabili sciocchezze. Insomma, continuo a sentirmi un personaggio statico, ma forse sono a tutto tondo e non me ne rendo conto, forse nemmeno Elizabeth Bennet era consapevole della sua maturazione. 
Però poco dopo lo scoccare dei ventidue - beh, facciamo all'incirca quarantotto ore dopo -, ho preso una penna nera e, anziché dedicarmi con cura agli schemi del poema sinfonico ottocentesco, con la mia calligrafia storta verso sinistra ho scritto la mia prima canzone. Cioè, ricordo di averne scritta una quando ero abbastanza piccola che comprendeva un'unica strofa e un ritornello e probabilmente riguardava le eroiche gesta di Mago Diddino e Signor Cavallo (credo fossero due miei amici immaginari, ma sono certa che, a dispetto dei loro nomi poco onorevoli, le loro gesta fossero eroiche al pari dei cavalieri delle chansons trobadoriche o degli eroi dell'Antica Grecia), però di quella non esistono più tracce, sebbene mi piaccia immaginare che i Bimbi Sperduti la cantino davanti ad un falò.
Sono molto orgogliosa della mia canzone, sebbene non sia eccellente dal punto di vista metrico, ma ammetto di essere sempre stata abbastanza saccente riguardo le mie creazioni letterarie e, nonostante la mia professoressa di Italiano e Latino che al liceo mi ripeteva continuamente di non considerarmi l'erede di Tasso non solo dal punto di vista del cognome, quell'otto (o nove) scritto in rosso sui miei compiti non faceva altro che aumentare la mia leggera presunzione. 
Ci ho messo ventidue anni per scrivere una canzone, però alla fine il risultato mi piace e, con mia enorme sorpresa, non è incompleta come la maggior parte delle mie storie che vorrebbero atteggiarsi a romanzi e che non lo saranno mai perché non hanno una fine. Mi sono resa conto che scrivere una canzone è un po' come riversare un pezzetto di anima sul foglio, perciò credo di aver appena generato un Horcrux, ma non ho usato l'Anatema che uccide, sono ligia nella mia natura di Grifondoro e non c'è pericolo che diventi la Strega Oscura più temuta dai tempi di Lord Voldemort.
Il vero problema adesso è musicarla. Sono figlia di un musicista che ha scritto svariate canzoni - sia il testo che la musica -, ho studiato violino e per circa vent'anni della mia vita alla domanda «cosa vuoi fare da grande?» ho sempre risposto «la cantante», eppure la verità è che non ho idea di come si componga musica. Certo, dopo dieci anni che ho a che fare con la musica classica, so leggere benissimo una partitura, riesco a riconoscere più o meno velocemente le modulazioni nell'ambito del circolo delle quinte e riesco a trovare con un po' di sforzo una cadenza o a riconoscere una Terza Picarda; volendo potrei persino comporre un corale in stile Bach (molto più modesto, ovviamente), però di musica leggera io non so niente, almeno dal punto di vista formale e tecnico, perché nella teoria sono ferratissima.
Ma confido nella perseveranza tipica del segno dell'Acquario, perseveranza che nonostante tutto mi ha fatto venire a studiare a Bologna, che mi ha fatto trovare un'impossibile canzone greca di cui non sapevo neanche una parola e che mi fa andare avanti anche nelle situazioni più improbabili. 
E comunque, buon compleanno bambina (anche se con un po' di ritardo).

sabato 24 gennaio 2015

Lacrime.

Non sono mai stata una dalle lacrime facili.
A meno che non si tratti di una canzone. O di un libro. O di un film...
Ok, in definitiva non sono una che piange spesso, o meglio, non per le cose davvero importanti, però continuerò a piangere disperata durante il finale di Sweet November, sebbene lo conosca a memoria.
La verità è che non ho mai pianto per le cose davvero serie, i momenti più difficili della mia vita sono sempre stati accompagnati da una secchezza dei dotti lacrimali fuori dal normale, sono una roccia in certi casi, anzi un iceberg di quelli che non si scalfiscono nemmeno se il Titanic ci sbatte contro, infatti affonda la nave, mica io.
Eppure ultimamente ho pianto molto più di quanto avrei voluto, forse perchè provo troppe emozioni troppo diverse e tutte insieme e alla fine impazzisco, tipo quando si aprono troppe app e l'iPhone si spegne da solo.
Ho letto da qualche parte che la struttura delle lacrime cambia a seconda delle diverse emozioni, è una cosa che mi affascina molto perchè effettivamente non tutte le lacrime sono uguali.
Le lacrime di gioia sono assolutamente differenti da quelle di rabbia così come le lacrime d'amore o di solitudine o di mancanza - e di quest'ultime io sono ormai un'esperta - sono diverse da quelle di stizza, di impotenza o di sfogo.
Ma mi sono resa conto che piangere fa bene e che a tenere tutto dentro alla fine si esplode. Io sono sempre stata dell'idea che piangere non serve a nulla, non risolve i problemi, non li fa sparire e non li rende meno problematici, per questo tendo a buttarmici prendendo la rincorsa, nei problemi. Quando però non si tratta di un vero problema ma solo di qualcuno che non ricambia i sentimenti che provi, o di ansia oppure di sollievo - insomma, nulla che possa essere effettivamente cambiato in qualche modo -, allora piangere non solo non è sbagliato, ma è proprio necessario. Serve a cacciare via tutto mentre ti ritrovi improvvisamente accasciata sulle mattonelle giallo vomito del bagno della casa in affitto in cui abiti, a singhiozzare disperata e alla fine ti senti solo meglio e magari te ne fai anche una ragione.
Non sono diventata una chiagnazzara (come direbbero a Napoli) e non ho nemmeno perso la mia forza, sebbene a volte mi sembri di non averne più, mi sono resa conto che è come un paesaggio in una giornata di nebbia, non si vede, ma dietro di essa c'è ed è sempre bellissimo. Semplicemente con il riscaldamento globale anche un iceberg forte e duro a volte si scioglie un po'.

martedì 20 gennaio 2015

Ho pensato molto all'amore...

Ho pensato molto all'amore ultimamente. Forse molto più di quanto sarebbe necessario, soprattutto in questo periodo in cui la mia testa dovrebbe essere concentrata sullo studio e sulla tesi, ma i miei pensieri convergono altrove.
Non posso dire di essere un'esperta dell'amore, l'ho sperimentato solo negli ultimi due anni della mia vita e mai completamente. Però, nel corso di questi due anni, posso dire di essere diventata un'esperta dell'aspetto platonico dell'amore, da un lato perchè vorrei qualcuno che non vuole me e dall'altro perchè, quando di recente ho amato ed ho avuto la sensazione di essere ricambiata, era un amore troppo veloce ed incredibilmente lontano.
Due, punto.
Conosco l'amore dai libri, ho sempre letto di grandi amori, amori che hanno portato alla morte, amori coraggiosi, amori che superavano le distanze delle classi sociali, amori magici, amori impossibili. Con i libri, le canzoni e i film ho conosciuto tutti i tipi d'amore, senza però capirli completamente, ma li ho desiderati tutti anche se non riuscivo a provare questo sentimento per nessuno. Grandi infatuazioni, tante farfalle nello stomaco, tanti glitter ma nulla di reale.
Poi l'ho sperimentato, due volte, non ricambiate o comunque non del tutto. L'amore non è come quello che descrive Shakespeare, non è successo velocemente, non è stato subitaneo e totalizzante, ma di sicuro difficile.
Ho vissuto dell'amore soprattutto le lacrime, tante lacrime. Mi sono ritrovata ad odiare la distanza più di qualsiasi altra cosa e poi ad odiare me stessa fino a sentirmi inadeguata all'amore.
Forse è davvero così.
Però so che io mi sono data completamente, senza limiti e credo che questo sia bellissimo e terribile. Amo in modo assoluto, senza preservarmi, come se stessi guidando un'auto da corsa in una strada che termina con un burrone e la portassi al massimo della sua velocità consapevole che l'impatto sarà poi devastante e me ne frego delle conseguenze.
Tuttavia una cosa l'ho imparata sull'amore:
«Amare è veloce, dimenticare è davvero lento
                      (Pablo Neruda, Tonight I can write the seddest lines)