Helda meaning.

Helda /ˈɦeld̪a/: antico nome germanico che significa "guerriera".

venerdì 6 marzo 2015

Ossimoro.

Ossimoro: una figura retorica che consiste nell'accostamento di due termini di senso contrario o antitetico tra loro.
Ricordo ancora la prima volta che ho letto questa parola - la prima volta che vi ho prestato attenzione, forse -, erano i primi mesi del terzo anno del liceo ed era scritta più o meno al centro di un foglio su cui erano elencate tutte le figure retoriche, quelle che poi ho odiato fino ad amare ogni qual volta le trovavo all'interno della Commedia, o di qualsiasi altra opera letteraria nelle varie lingue che studiavo.
Sono io, praticamente. Lo pensai allora ed adesso ne sono ancora più convinta.
All'epoca mi sentivo fragile, come un dente di leone spazzato via dal vento che, per una strana - ossimorica - ironia della sorte, portava un nome che significa "guerriera". Ho impiegato molto tempo per rendermi conto che il mio nome è uno dei pochi "non ossimori" della mia vita. Il soffione è un fiore che, per quanto fragile, cresce dovunque, nonostante le avversità e io sono esattamente così, una guerriera.
Ma sono effettivamente ossimorica per tutto il resto. In continua contraddizione con me stessa, ma non incoerente o indecisa o ignava. No, solo ossimorica.
Tutto quello che ho amato davvero nella mia vita, l'ho anche odiato con tutta me stessa. Per qualsiasi cosa, dal violino alle migliori amiche. E tutto il resto. Odi et amo, altrimenti per me rasenta l'irrilevanza.
Come quando andavo allo Zoo di Napoli considerandolo uno dei miei posti preferiti al mondo, sebbene lo odiassi. Dopo la zona ristoro, le giostre e il baby zoo, c'erano le gabbie dei felini; tra tutti gli animali, questi sono quelli che amo di più e, la similitudine (caratteriale) che qualcuno ha riscontrato tra me e i gatti, mi sembra pertinente, appropriata. Ricordo che sulla sinistra c'erano le tigri e sulla destra, in una stretta gabbia - come del resto tutte - con un tronco di un albero in orizzontale, c'erano un puma ed un leopardo. Erano bellissimi e profondamente sbagliati, lo sapevo anche allora: vederli così vicini era per me una gioia indescrivibile, ma era una visione imperfetta, come uno spartito con una perenne fase di tensione che non risolve sulla stasi della Tonica.
Un animale così grande, micidiale e stupendo non doveva trovarsi chiuso in una gabbia che al massimo era di tre metri, costretto a camminare per sempre in quello spazio ridotto incontrando ogni volta un muro che lo costringeva ad invertire la marcia. In un loop crudele ed infinito.
Se all'epoca provavo sofferenza per gli animali dello Zoo di Napoli, adesso so esattamente come si sentiva quel meraviglioso leopardo.
Chiusa nella mia piccola stanza con vista tetti rossi di Bologna, mentre cammino avanti e indietro dovendo continuamente fare inversione di marcia perché limitata dalle mura che la circondano. In una gabbia che ho cercato io stessa e che, in verità, solo ora sento come una gabbia, mentre ripeto fino a perdere la voce e a mangiarmi le unghie a sangue per l'ansia. Agognando una libertà più simbolica che effettiva e desiderando al contempo che questi giorni passino in fretta e che non passino perché ho bisogno di più tempo.
D'altronde, sono un ossimoro.

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